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B-side of the city              (2011)

a cura di Alessandra Redaelli

Scorci di inquietudini metropolitane

 

E’ un’umanità inquieta e inquietante, sottilmente claustrofobica, quella raccontata dal gruppo di artisti in mostra oggi alla Galleria Previtali. Popolo metropolitano, senza alcun dubbio, narrato da voci diversissime una dall’altra, eppure accomunate da un senso serpeggiante di malessere interiore, una specie di spleen di inizio millennio che in qualche modo sembra aver contagiato tutta l’arte contemporanea. 

Stilizzati e tuttavia attentamente caratterizzati – al punto da non lasciare dubbi sulla effettiva somiglianza anche in chi non conosca i modelli – i ritratti di Mauro Molinari si presentano in sequenze serrate, come foto segnaletiche, gelidi come i volti pubblicati dai giornali a illustrare fatti di cronaca. Sono appoggiati su sfondi neutri, dai colori assurdi e fumettistici, oppure occhieggiano da edifici squadrati, chiusi da fitte inferriate come prigioni. Il segno libero ed elegante spazia dalla purezza del disegno infantile al design, fino alla street art. 

E’ invece un senso di smarrimento di sapore surreale, onirico, quello che si respira nei lavori di Marino Benigna, tra corpi deformati, enormi oppure piccolissimi, persi in letti sterminati dove lottano per dimenticare un incubo. 
Un’identità frammentaria, incerta, mutevole, a volte appena leggibile è quella che si incontra nei collage di Tomaso Albertini. In una sorta di rilettura arcimboldesca, l’artista sovrappone pezzi di carta e pennellate creando volti fiammeggianti, cangianti e terribili come apparizioni minacciose. 
E poi ci sono le donne. Quelle evanescenti, fantasmatiche, di Antonio Bono, dai corpi delicati e aggraziati, e quelle aggressive, dure, potentemente seducenti di Giorgio Ferretti.

Un uomo che si tiene la testa come se non riuscisse a raccogliere i pensieri è la scultura con cui Imerio Rovelli racconta la sua umanità confusa, frastornata. Sperimentatore curioso, l’artista passa dall’impostazione prettamente classica a torsi acefali e mutilati, forme fluide dentro le quali il corpo risulta appena leggibile, un mero ricordo, mentre la brutalità si stempera in un uso gioioso della materia e del colore.

I paesaggi di Luisa Maggioni, stilizzati fino a sfiorare l’astratto, sono labirinti dei quali si è persa l’uscita, quasi una scrittura segnica primitiva che si vorrebbe decifrare per trovare la chiave di un mistero che non ci dà pace.
E poi ci sono le chiese di Sandro Giordano. Interni austeri e imponenti di cattedrali gotiche in cui l’architettura si alza verso il cielo come un potente canto corale. Elegantissimi, tutti giocati sulle infinite sfumature che vanno dal grigio piombo, al fumo, al bianco ghiaccio, sono la negazione del caos metropolitano. Forse, chi può dirlo, una delle possibili alternative all’angoscia. Eppure la risposta non è così semplice. Quegli ambienti immensi, invasi da una luce trascendente che si specchia sui pavimenti scintillanti per caricarsi di una luminosità insostenibile, appaiono qui troppo grandi per la piccolezza dell’uomo. L’uomo, infatti, è assente. E quelle stanze colme di divinità restano abbandonate, deserte, come reperti ormai dimenticati di un mondo perduto.

Il lato B.    B-Side.